Nella tradizione sarda, quando la civiltà industriale e commerciale
ancora non aveva soppiantato quella contadina e agropastorale, il Natale
costituiva un importante e significativo momento di aggregazione, ideale per ribadire e talvolta ripristinare la coesione
del nucleo familiare temporaneamente incrinata dai vincoli derivanti dal lavoro
in campagna.
Il
Natale basato sul messaggio di fede e speranza, si contrapponeva positivamente
alla solitudine degli altri periodi dedicati alla produzione del reddito,
quando, per molti mesi all’anno, il capo famiglia era costretto a vivere in
freddi ricoveri di montagna, lontano dalla propria casa e dai propri cari. Il momento cardine che sanciva la ricomposizione
di ciascuna famiglia e la ripresa dei contatti umani, era proprio la notte
della Vigilia, definita dalla tradizione Sa notte
’e xena (notte della cena).
In quest’occasione, il caminetto rappresentava il centro delle
attività di ciascuna famiglia e,
quindi, il punto di emanazione del calore necessario a mitigare le fredde
temperature invernali. Per questo motivo, era consuetudine predisporre per le
festività natalizie, un grosso ceppo appositamente tagliato e conservato Su
truncu ’e xena o cotzina ’e xena. Un’atmosfera descritta in “Miele Amaro”,
ripensando alla sua Orotelli, da Salvatore Cambosu: «Certo, ci vuole proprio un
villaggio perché un bambino come Gesù possa nascere ogni anno per la prima
volta. In città non c’è una stalla vera con l’asino vero e il bue; non si ode
belato, e neppure il grido atroce del porco sacrificato, scannato per la
ricorrenza. In città è persino tempo perso andar cercando una cucina nel cui
cuore nero sbocci il fiore rosso della fiamma del ceppo».
Proprio
accanto al piacevole tepore emanato dal fuoco l’intero gruppo familiare
consumava i prodotti tipici sardi della tradizione pastorale come l’agnello o
il capretto arrosto con annesse frattaglie (su trataliu e sa corda), formaggi
sardi e salsicce sarde ottenute da su mannale, il maiale allevato in casa. Secondo questa consuetudine i preparativi per la
cena iniziavano già nei giorni precedenti la Notte Santa. Al riguardo, la tradizione orale racconta come in quella
circostanza il consumo di tutte le pietanze preparate diventasse un obbligo. E
proprio per questo motivo, spesso e volentieri, si ammonivano i bambini a
mangiare abbondantemente, altrimenti una terribile megera chiamata “Maria
Puntaborru” (in alcuni paesi del Campidano) o “Palpaeccia” (in molti paesi
dell’interno), avrebbe tastato il loro ventre durante il sonno e se questo
fosse risultato vuoto, avrebbe infilzato la loro pancia con uno spiedo
appuntito oppure messo sul loro stomaco una grossa pietra per schiacciarlo.
Dopo la cena si era soliti intrattenersi ascoltando le storie e gli
aneddoti di vita narrati dagli anziani.
In alternativa, il momento d’attesa era trascorso facendo ricorso a giochi
tradizionali come su barrallicu, arrodedas de conca de fusu, punta o cù,
cavalieri in potu, tòmbula, matzetu e set’è mesu in craru. Con l’avvicinarsi della mezzanotte, i rintocchi
delle campane avvisavano la popolazione dell’imminente inizio della “Messa di
Natale”, Sa Miss ’e pudda, ovvero la “messa del primo canto
del gallo”.
In tale circostanza tutte le chiese venivano addobbate con una gran
quantità di ceri. L’atmosfera natalizia e l’alta
concentrazione di gente che assisteva alla solenne funzione (ad eccezione delle
donne in lutto che la notte restavano a casa e partecipavano alla prima
orazione del giorno dopo) diventavano spesso fonte di baccano durante lo
svolgimento delle sacre funzioni religiose e, in alcuni casi, capitava
addirittura di udire archibugiate in segno di giubilo provenienti dal portone
o, talvolta, dall’interno della chiesa stessa.
Ne
è testimonianza ciò che accadde in occasione del Natale del 1878, quando,
all’ora dell’elevazione dell’ostia, uno dei barracelli presenti al rito sparò
una schioppettata nel presbiterio, cosicché il parroco sbigottito dovette
affrettarsi a finire le funzioni religiose prima dell’ora stabilita. A tal
proposito la Chiesa, già dal lontano passato, aveva sempre lamentato il
perpetuarsi di questi inconvenienti, tant’è che i Sinodi di Cagliari degli anni 1651 e 1695, ad esempio, davano indicazioni ben precise al Clero
locale, affinché: «… si vietino il chiasso e la gran confusione che si creano
in chiesa in occasione delle grandi feste e … le notti di Natale, Giovedì e
Venerdì Santo, … non si permetta il lancio di noccioline, nocciuole, dolci,
ecc., … né si sparino archibugiate all’interno della chiesa, anche se per
festeggiare il Santo. E se sarà necessario si invochi l’aiuto del braccio
secolare per scongiurare questi eccessi».
In Barbagia non mancano tradizioni specifiche riferibili alle feste
natalizie e di fine anno. A Bitti fino all’Epifania Su
Nenneddu (un’antica piccola statua di Gesù Bambino) viene accolto di casa in
casa (emigrati compresi) con canti e preghiere. Ancora a Bitti il 31 dicembre
al termine del Te Deum il parroco si affaccia alla finestra della chiesa per
lanciare Sas Bulustrinas, monetine e caramelle che scatenano la caccia dei
bambini. Bimbi protagonisti anche a Orgosolo nella mattinata di San Silvestro
quando viene ancora riproposta Sa candelarìa: gruppi di bambini girano di casa
in casa per ricevere piccoli regali tra cui un pane tipico preparato per
l’occasione. La notte tocca poi agli adulti che fanno visita alle coppie che si
sono sposate nell’anno moribondo.