lunedì 29 gennaio 2024

I ricchi mandano a morire i figli dei poveri. Di Lucia Chessa.


 

Oggi del nostro programma pubblico la conclusione. E' una parte a cui teniamo non molto, moltissimo.

S'intitola Vota e Parti.... e parla di guerre

Abbiamo parlato di Sardegna. Ne abbiamo parlato cercando di tenere il focus su ciò che è di competenza della regione. Ma riteniamo che nessun progetto e nessun programma politico oggi possa esistere se non guarda al dramma immane che si consuma vicino a noi. Alle guerre che insanguinano l’Europa e il Medio Oriente e che minacciano di allargarsi e di assumere proporzioni imprevedibili.

Noi pensiamo che ci riguardi ciò che avviene su questo pianeta. Ci riguarda ciò che avviene nel “nostro giardino” come spazio fisico e spazio umano.

L’Italia non è esente da responsabilità, e tutti coloro che ubbidienti hanno votato per l’invio di armi in teatri di guerra, e quelli che lo fanno ancora, non solo hanno scelto il prolungamento della carneficina, ma si sono assunti una responsabilità storica di avvicinamento alla catastrofe. Avvicinamento che prende forma nei fatti del Mar Rosso che vedono coinvolte le navi da guerra italiane. Tutto ciò ci riguarda anche come cittadini di Sardegna perché qui hanno sistemato i due terzi delle servitù militari italiane e niente come questo nostro essere piattaforma di guerra esprime e rappresenta in nostro essere, per l’ennesima volta, colonia.

Così come, la stessa condizione di colonia umiliata, è espressa da tutti i protocolli d’intesa sottoscritti negli ultimi anni dalla Regione e dal Ministero della Difesa e tesi a regolare la difficile convivenza tra i poligoni e le popolazioni che vivono in quelle aree. Protocolli umilianti nei contenuti e per giunta tutti regolarmente e assolutamente disattesi. Qui in Sardegna si esercitano i militari di mezzo mondo. Sottraendo spazi, risorse, salute, salubrità dell’ambiente e opportunità. Sottraendo sovranità.

Noi, “ripudiamo la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”, noi siamo sulle posizioni di Gino Strada quando dice “fuori la guerra dalla storia”, noi troviamo inaccettabile che l’attività più lucrosa in questo momento sia uccidere persone e prendiamo le distanze dai signori della guerra, in tutti i luoghi, istituzioni, scuole e Università.

Noi troviamo inaccettabile che non ci siano risorse per sanità, istruzione, cura delle persone fragili, per la ricerca, ma si trovino fiumi di soldi per svuotare e riempire gli arsenali inseguendo la militarizzazione in atto in Europa e nel mondo, fenomeno sinistro che ha preceduto tutte le grandi guerre.

E’ ormai da un secolo che la maggior parte delle vittime delle guerre, nell’ordine del 95% siano civili e non militari. In dispregio di ogni convenzione, di ogni diritto internazionale, di ogni tentativo inutile di “regolare la guerra” perché questo non si può fare. Noi abbiamo una proposta. Provocatoria. Perché purtroppo la provocazione sembra essere lo strumento residuo delle "minoranze" pacifiste verso le arroganze guerrafondaie.

Noi vorremmo sia stabilita una regola universale. Vorremmo che coloro che decidono la guerra, dal caldo dei loro uffici e dei loro confortevoli divani, dai loro scranni governativi e parlamentari, compresi coloro che votano, puliti puliti, per inviare armi invece che soccorsi, siano i primi a partire. Ad essere collocati sotto le bombe, disarmati e inermi come i bambini di Gaza e di tutti gli altri luoghi sconvolti da conflitti, ad essere esposti al fuoco come i malati e i medici degli ospedali nei teatri di guerra, a patire la fame ed addossarsi, nella ressa, per un pezzo di pane lanciato da un camion di aiuti umanitari.

 VOTI E PARTI.

Paradossale vero? Si!

Però non più paradossale della morte, della sofferenza immane, delle mutilazioni di quegli uomini, di quelle donne, di quei bambini di cui fanno scempio le nostre armi, quelle che produciamo qui, che partono da qui, che stocchiamo qui, quelle la cui efficacia sperimentiamo qui.

“La guerra la decidono i ricchi che mandano a morire i figli dei poveri”. Cit. Gino Strada

 

 Lucia Chessa

domenica 28 gennaio 2024

L’apocalittico lager di San Sabba. Di Vincenzo Maria D’Ascanio.


 

 

San Sabba, lager presente sul territorio nazionale, venne istituito il 20 ottobre 1943 nell’area dismessa di uno stabilimento dove si lavorava alla pilatura del riso. Fu un campo di transito, detenzione, sterminio e tortura dal quale sostarono più di 25000 deportati, destinati tra i più grandi campi di Buchenwald, Dachau e Auschwitz.

I cadaveri venivano “smaltiti” nel forno crematorio ricavato dal precedente essiccatoio dei cereali. A progettarlo, Erwin Lambert, uomo di punta delle SS che già in passato aveva realizzato le camere a gas di Sobibór, Treblinka, Hartheim e Hadamar. La Risiera di San Sabba fu l'unico lager in Italia dotato di forno. Questo venne messo in funzione la prima volta il 4 aprile 1944 e in quell'occasione vennero cremati settanta cadaveri di ostaggi fucilati il giorno prima presso il poligono di tiro di Opicina, sul Carso.

Ma il forno non si usava solo per cremare i cadaveri. Spesso vi venivano bruciate anche persone svenute dopo aver ricevuto un colpo in testa da parte del boia. A cremazione ultimata, le ceneri venivano caricate sui camion e svuotate nella baia di Muggia, a pochi chilometri di distanza. Alla fine della guerra, il 29 aprile, il forno crematorio e la ciminiera vennero fatti esplodere dai nazisti in fuga per cancellare le prove. Con essi andò distrutta buona parte della documentazione sull'identità delle migliaia di persone che misero piede nel lager di San Sabba. Gli imprigionamenti non avvenivano solo per motivi politici e razziali, le retate coinvolgevano anche civili (omosessuali) destinati al lavoro coatto.

 

Non era presente una camera a gas, l’esecuzione avveniva anche con fucilazione o più grezzamente attraverso un colpo di mazza alla base della nuca, o ancora tramite l’asfissia provocata dai gas di scarico di alcuni furgoni. Successivamente i cadaveri venivano cremati nel forno. Tra il 29 e il 30 aprile 1945 i partigiani jugoslavi (moltissimi partigiani croati furono torturati e uccisi proprio a San Sabba, senza ulteriori destinazioni) erano diretti proprio verso la ex risiera, con l'ordine di uccidere nazisti e fascisti per immediata fucilazione. I nazisti tuttavia fuggirono, e con l’intento di eliminare le prove degli eccidi, fecero esplodere il forno crematorio insieme alla sua ciminiera.

 

Dopo la liberazione, fu decisione del governo di adibire l’area a campo raccolta per sfollati e, in un secondo momento, venne allestito un campo per l’accoglienza dei profughi giuliani, dalmati ed istriani, tutto ciò fino al 1954. Nel 15 aprile 1965, un decreto presidenziale, stabilì che la Risiera di San Sabba venisse considerata come Monumento Nazionale. Alla fine della guerra, Odilo Globonik e il commissario supremo Rainer in fuga vennero catturati insieme durante la ritirata dall'VIII Armata Britannica. Il primo tentò di negare la sua identità, ma venne identificato e si suicidò il 31 maggio con una capsula di cianuro. Rainer invece venne arrestato e in seguito consegnato agli jugoslavi, che lo processarono a Lubiana nel 1947 e lo condannarono a morte.

Solo trent'anni dopo, nel febbraio del 1976 cominciò il processo ai criminali della Risiera di San Sabba. Trenta avvocati rappresentavano sessanta parti civili, mentre la sbarra degli imputati rimase vuota. Gli imputati erano già morti da tempo. L'unico sopravvissuto, Joseph Oberhauser, comandante della Risiera, venne condannato all'ergastolo in contumacia ma continuò la sua attività di birraio a Monaco di Baviera fino alla morte, occorsa nel 1979. Infatti, gli accordi fra Italia e Germania relativi all'estradizione non coprivano gli anni precedenti al 1948.

 

Vincenzo Maria D’Ascanio


La revisione della toponomastica sarda. Di Francesco Casula e Mario Garzia.


Condivido con piacere questa riflessione di Mario Garzia che non conosco ma che ringrazio per la lucidità, il garbo e la pacatezza delle sue argomentazioni. Cosa che, invece, a molti non è piaciuta.Il suo post s’incentra su un tema del quale mi sento protagonista: quello della revisione della toponomastica sabauda e della sostituzione della statua di Carlo Felice posta al centro della città di Cagliari, quale occasione per studiare la storia della Sardegna.

 

Ora, so bene che nonostante le tante precisazioni che faccio chi non è d'accordo strumentalizza tutto ciò al solo scopo di non toccare nulla e di non permettere che sul tema ci possa essere un ampio e partecipato dibattito, come democrazia vorrebbe. Certo, io scrivo molto perchè per amore di verità cerco di non tralasciare alcun dettaglio e, forse, taluni di coloro che leggono, fanno sintesi e si soffermano solo su ciò che fa comodo.

Allora provo a essere schematico:

 

1) Né io né Francesco Casula pensiamo che la statua debba essere eliminata (cosa che farebbe di noi degli iconoclasti) mentre ci limitiamo a chiederne, democraticamente, lo spostamento (cosa che rientra nell'ambito dell'organizzazione degli spazi pubblici che da sempre si è fatta e si continua a fare).

2) Entrambi siamo contro qualsiasi atto vandalico perpetrato ai danni di qualsiasi monumento, compreso quello che, come ho già scritto e come dice anche Francesco Casula nei suoi interventi, è un bene culturale che va tutelato e, anzi, per quanto mi riguarda valorizzato attraverso una narrazione che ne illustri i diversi aspetti artistici e simbolici.

 

Il motivo principale che induce alla proposta di "riorganizzare" gli spazi pubblici, rivedendo la toponomastica e il posizionamento di quella statua, deriva proprio dal fatto che a cancellare una cultura è stata quella dinastia e chi l'ha sostenuta per ottenere dalla stessa dei vantaggi. Chi ha voluto che noi sardi disimparassimo a parlare in sardo per esprimerci solo in italiano? Perchè non si poteva imparare l'italiano continuando a praticare il sardo? Perchè, come bene scrive Mario Garzia, nel corso di quella dinastia sono state modificati i nomi di tante strade della città per sostituirle con i nomi di quei re e dei loro sostenitori?

 

E se a fare quelle azioni sono stati gli Stamenti, espressione comunque di una minoranza della popolazione rappresentante le caste ritenute importanti, per quale ragione oggi i rappresentanti di una popolazione (il Consiglio Comunale) non dovrebbe avere il potere di "risignificare", attraverso processi di riorganizzazione, quegli spazi secondo simboli considerati più consoni ai valori di una moderna società repubblicana?

 

Non è che dietro il dogma del "non si tocca nulla" o del "vogliono cancellare la storia", c'è una sottile nostalgia monarchica che si vuole perpetrare attraverso simboli che devono rimanere riferimenti subliminali per chi vive nel presente e vivrà nel futuro? 

giovedì 25 gennaio 2024

Usa, Cuba e l’embargo. Di Vincenzo Maria D’Ascanio.


(25 Gennaio1998) Con una messa celebrata nella grande "Piazza della Rivoluzione", si conclude la storica visita di Giovani Paolo II a Cuba. Alla celebrazione partecipa anche il leader maximo, Fidel Castro. Primo pontefice a recarsi in visita sull’isola, Wojtyla condannerà, il giorno dopo, l’embargo imposto dagli Stati Uniti, definendola una misura discriminatoria che colpisce solo i poveri.

 

L'embargo contro Cuba, conosciuto anche come "el bloqueo", è un embargo commerciale, economico e finanziario imposto dagli Stati Uniti d'America contro Cuba all'indomani della rivoluzione castrista. Il 17 dicembre 2014, il presidente statunitense Barack Obama annuncia l'intenzione di porvi fine. Tuttavia, per poter essere effettivamente rimosso, sarà necessario il voto favorevole del congresso americano, controllato dal Partito Repubblicano che si oppone alla Presidenza.

 

Nel 2017 il neoeletto presidente repupplicano "Trump" ha firmato una nuova direttiva, basata sopratutto sulla parte dell'accordo che apriva ad una maggiore collaborazione sia dal punto di vista commerciale che del turismo. "Aperture che", secondo Trump, "non hanno portato vantaggi ai cubani e migliorato la situazione dei diritti umani".

 

L'accordo siglato dalla precedente amministrazione, secondo Trump, altro non ha fatto che "arricchire il regime Castrista". Per questo la sua amministrazione "applicherà con maggior convinzione l'embargo e il divieto sul turismo".

 

Con la nuova firma si proibisce a turisti ed imprenditori americani di effettuare transazioni col "Grupo de Administracion Empresarial S.A.", la diramazione commerciale del regime, conosciuto come "Gaesa". La Gaesa controlla il 60% dell'economia cubana e l'80% del settore turistico, è proprietaria di gran parte degli alberghi e dei ristoranti e delle famose spiagge di Varadero. La decisione ha determinato conseguenze anche per le società alberghiere americane (competitori degli alberghi Trump) che ottennero da Barack Obama l'autorizzazione per un accordo per gestire un albergo storico dell'Avana. La Camera di Commercio americana commentò negativamente le decisioni assunte dal presidente americano.

 

Di Vincenzo Maria D’Ascanio. 

L’orgoglio di amare Gigi Riva. Di Pier Franco Devias.

Io di calcio, come è noto, non ne capisco niente. Ma la figura di Gigi Riva è un qualcosa che va oltre, ben oltre il calcio. Ho riflettuto tante volte su questo personaggio così benvoluto da noi Sardi. Mi è capitato anche di vederlo, un giorno, mentre mangiavo una pizza con amici a Cagliari e mi colpì la semplicità e la riservatezza di quest’uomo che, con evidenza, apprezzò che al nostro cenno di saluto non seguì la solita invadente richiesta di selfie e autografi, come è tipico della nostra epoca egocentrica e indiscreta.

 

Penso che la sua scelta di restare in Sardegna, spesso, sia male interpretata. In tanti ripetono che volle restare qui “nonostante altrove lo avrebbero coperto d’oro”. Ebbene chi dice questo, pur sardo, non ha capito il valore di questa terra. A differenza di Gigi Riva. Lui capì che non c’è oro che possa ripagarti di una vita tra gente che ti vuole bene. Non c’è oro che possa ripagarti più di essere una leggenda per un popolo. Non per una tifoseria, ma per una nazione intera. In tanti, ancora oggi, non riescono a capire che lui accettò col cuore quel valore inestimabile che non poteva essere comprato.

 

Io credo che l’affetto di tutti i sardi verso questo uomo sia dovuto, come dicevo, a qualcosa che va ben oltre il calcio. In realtà lui ha rappresentato, pur nel suo campo, ciò che i sardi aspettavano da generazioni. Perché Gigi Riva è stato quello che, dopo cinquecento anni di sconfitte, ha permesso ai sardi, a tutti i sardi e in quanto tali, di poter dire: “Noi, noi sardi abbiamo vinto contro tutti!”

 

Per questo tutti lo hanno amato, e tutti lo tengono ben più in alto di come si fa con un campione sportivo: perché è stato quello che ha portato il riscatto tra le classi popolari, abituate a perdere sempre, a vedersi sempre superare e umiliare. E’ stato, in questo senso diffuso, un campione del popolo anche a prescindere dallo sport, e la sua modestia e familiarità con la gente comune ne hanno determinato quella santificazione laica che oggi tanti gli tributano.

 

Per questo oggi tutti noi sardi, sportivi o meno, ci sentiamo un po’ orfani per la perdita di un nostro beniamino. Ma ciò che si sta manifestando in questa occasione deve anche inorgoglirci. Perchè ci dimostra che non è vero che siamo sempre divisi, sempre invidiosi e irriconoscenti: l’affetto per questo campione ci rivela che sappiamo ancora amare chi ci rappresenta, chi ci riscatta, chi lotta con tutte le sue forze per dimostrare di che pasta siamo fatti.

 

Dobbiamo solo imparare a riconoscere i tanti, tantissimi Gigi Riva che spesso trascuriamo, ma che sono intorno a noi. Uomini e donne che si realizzano, che con grande fatica si (e ci) riscattano nel loro campo di gioco, portando col loro talento il nome della nostra terra alto nel mondo. E allora, riconoscenti per l’esempio di questo grande campione, vorrei che tutti noi imparassimo a dire grazie anche a tutti i Gigi Riva che con la loro umiltà e con la loro tenacia ci rendono orgogliosi di essere sardi.

 

Pier Franco Devias

 

mercoledì 24 gennaio 2024

Le BR uccidono Guido Rossa. Di Vincenzo Maria D’Ascanio.


 

Il sindacalista Guido Rossa, operaio all’Italsider di Genova, viene ucciso dalle Brigate Rosse mentre si trovava sulla sua macchina. È la prima volta che le BR uccidono un sindacalista, oltre che militante del Partito Comunista.Veniamo ai fatti. Pochi mesi prima, in azienda, Rossa notò Francesco Berardi intento a nascondere alcuni volantini dietro un distributore del caffè. Proprio il quel luogo erano stati ritrovati altri volantini delle Brigate Rosse, per questo Berardi fu bloccato. Dopo un dibattito tra i lavoratori l'armadietto di Berardi fu aperto ritrovandovi all'interno documenti brigatisti, volantini di rivendicazione di azioni compiute dalla BR e fogli con targhe d'auto appuntate.

 

Berardi intanto cerca inutilmente di fuggire ma viene fermato dalla vigilanza della stessa fabbrica; si dichiara dunque "prigioniero politico" e viene consegnato ai carabinieri e arrestato. Guido Rossa denuncia l'uomo (rispettando la disposizione del Consiglio di fabbrica, che imponeva la denuncia del possibili brigatisti) mentre gli altri due delegati si rifiutano, lasciandolo solo. Guido non ritira comunque la denuncia e testimonia al processo, nel quale Berardi (intanto morto "suicida" in carcere) viene condannato a quattro anni e mezzo di reclusione. Temendo una vendetta dei brigatisti, il sindacato offre per alcuni mesi a Rossa una scorta formata da operai volontari dell'Italsider, a cui lo stesso Rossa in seguito rinuncia.

 

La denuncia e la testimonianza del sindacalista sono decisive per la condanna di Berardi, ma decretano la sua condanna a morte. Il 24 gennaio 1979, al mattino, Rossa fu assassinato da un commando brigatista composto da Vincenzo Guagliardo, Riccardo Dura e Lorenzo Carpi. Successive indagini rivelarono che l’azione era stata progettata per gambizzare la vittima, ma Dura decise di colpire al cuore la vittima.

 

Ai suoi funerali, in un'atmosfera particolarmente tesa, partecipano circa 250.000 persone. Si svolsero nella grande “Piazza De Ferrari”, famosa per essere stata al centro delle manifestazioni antifasciste del 30 giugno 1960. Oltre al sindaco Fulvio Cerofolini erano presenti anche il presidente della Repubblica Sandro Pertini, che concesse la medaglia d’oro al valor civile, il segretario della CGIL Luciano Lama e il segretario del PCI Enrico Berlinguer.

 

Dopo la cerimonia Pertini chiede d'incontrare i “camalli” (gli scaricatori del porto di Genova). Racconta Antonio Ghirelli, all'epoca portavoce del Quirinale, che il Presidente era stato avvisato che tra quei lavoratori c'era chi simpatizzava con le BR. Pertini rispose che proprio per quello li voleva incontrare. Il Presidente entrò in un grande garage stracolmo di persone, salì sulla pedana e con voce ferma disse: “Non vi parla il Presidente della Repubblica, vi parla il compagno Pertini. Io le Brigate Rosse le ho conosciute: hanno combattuto con me contro i fascisti, non contro i democratici. Vergogna!”. Ci fu un momento di silenzio, poi un lungo applauso. La salma di Rossa fu infine tumulata presso il Cimitero monumentale di Staglieno.

 

Vincenzo Maria D’Ascanio.

venerdì 19 gennaio 2024

Paolo Borsellino e la lotta contro la mafia. Di Vincenzo Maria D'Ascanio


 

“Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.” Paolo Emanuele Borsellino (Palermo, 19 gennaio 1940 – Palermo, 19 luglio 1992)

(19 gennaio 1940) Nasce a Palermo Paolo Borsellino, stessa città dove morirà il 19 luglio 1992 in seguito a un attentato della mafia in via d'Amelio, uccidendo oltre a Borsellino anche i cinque agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

 

Borsellino nasce nell'antico quartiere di origine araba della Kalsa. Entrambi i genitori sono farmacisti. Frequenta il Liceo classico "Meli" e si iscrive presso la facoltà di Giurisprudenza di Palermo: all'età di 22 anni consegue la laurea col massimo dei voti. Nel periodo universitario Paolo Borsellino viene anche eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino. Pochi giorni dopo la laurea muore il padre. Prende così sulle sue spalle la responsabilità di provvedere alla famiglia. S’impegna con l'ordine dei farmacisti a tenere l'attività del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia della sorella.

 

Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Borsellino studia per il concorso in magistratura che supera nel 1963. Da allora Borsellino fu un incorruttibile magistrato, sino a far parte del “pool antimafia” costituito dal giudice Antonino Caponnetto. Il pool era un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso e, lavorando in gruppo, essi avrebbero avuto una visione più chiara e completa del fenomeno mafioso e, di conseguenza, la possibilità di combatterlo più efficacemente.

 

Caponnetto chiamò Borsellino a fare parte del pool insieme con Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Il pool lavora duramente per processare e condannare molti esponenti mafiosi, e nel maxiprocesso di Palermo (preparato insieme a Falcone sull’isola dell’Asinara) che si conclude con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli.

Il 24 luglio circa 10.000 persone parteciparono ai funerali privati di Borsellino (i familiari rifiutarono il rito di Stato; la moglie, Agnese Borsellino, accusava il governo di non aver saputo proteggere il marito, e volle una cerimonia privata senza la presenza dei politici), celebrati nella chiesa di Santa Maria Luisa di Marillac, disadorna e periferica, dove il giudice partecipava solitamente alla messa. L'orazione funebre la pronuncia Antonino Caponnetto, il vecchio giudice che diresse l'ufficio di Falcone e Borsellino: «Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi».

 

Pochi i politici: il presidente Scalfaro, Francesco Cossiga, Gianfranco Fini, Claudio Martelli. Il funerale è commosso e composto, interrotto solo dagli applausi. Qualche giorno prima, i funerali dei cinque agenti di scorta si svolsero nella Cattedrale di Palermo, ma all'arrivo dei rappresentanti dello stato (compreso il neo Presidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro), una folla inferocita sfondò la barriera creata dai 4000 agenti chiamati per mantenere l'ordine. La folla urlava "Fuori la mafia dallo stato". Il Presidente della Repubblica fu fatto uscire con grosse difficoltà, e fu spintonato anche il capo della polizia. La salma è stata tumulata nel Cimitero di Santa Maria di Gesù a Palermo.


Vincenzo Maria D’Ascanio

giovedì 18 gennaio 2024

L’arresto di Renato Curcio. Di Vincenzo Maria D’Ascanio.


 

(18 gennaio 1976) In via Maderno a Milano la polizia arresta Renato Curcio, ritenuto il leader dell'organizzazione terroristica “Brigate Rosse.” Curcio era evaso nel febbraio del 1975 durante un'azione organizzata e diretta dalla moglie Margherita Cagol, nome di battaglia “Mara”, che morì dopo un conflitto a fuoco con l’Arma dei Carabinieri.

 

Renato Curcio (Monterotondo, 23 settembre 1941) nasce da una relazione extraconiugale tra la madre Jolanda Curcio, giovane ragazza pugliese emigrata a Roma, e Renato Zampa, fratello del noto regista cinematografico Luigi Zampa. Formatosi intellettualmente e politicamente all'Università di Trento, nel 1969 fondò con altri, tra i quali la futura moglie Margherita Cagol e Alberto Franceschini, il “Collettivo Politico Metropolitano”.

 

Curcio, entrato a far parte della rivista d’ispirazione marxista-leninista "Lavoro Politico", ha modo di esprimere opinioni distanti dalla lotta armata. Il ripensamento sul tema della violenza arriva dopo gli scontri di Avola del 02 dicembre 1968: nell'occasione la polizia sparò sui braccianti uccidendone due e continuando a sparare senza sosta per 25 minuti. All'inizio del mese di novembre del 1969 siamo nel pieno della rivoluzione studentesca: Renato Curcio partecipa all'ormai famoso Convegno di Chiavari presso l'hotel Stella Maris. Qui vengono stilate le basi per l'avvio della lotta armata in Italia, a cui prende parte anche un nucleo di appartenenti al Collettivo politico metropolitano di Milano. L'anno successivo vengono fondate le Brigate Rosse: è il mese di maggio del 1970 quando nel quartiere di Lorenteggio, a Milano, appaiono i primi volantini con la stella a cinque punte.

 

Curcio è alla guida delle BR insieme alla moglie Mara e Alberto Franceschini. La prima azione avvenne il 17 settembre 1970, quando il gruppo fa saltare in aria il garage di Giuseppe Leoni, dirigente d’azienda. SIT Siemens, Pirelli, Alfa Romeo sono le prime industrie dove il partito armato s’insedia. In seguito, con la morte di Mara Cagol e con la carcerazione dei leader Curcio e Franceschini, la direzione del movimento passò in mano ad esponenti della cosiddetta "ala militarista" capeggiata da Mario Moretti, che porterà il gruppo in seno alla triste stagione degli omicidi e dei ferimenti che l'Italia conoscerà dalla seconda metà degli anni '70.

 

Pur non avendo mai teorizzato la violenza Renato Curcio non si è mai pentito delle sue scelte, ma ha duramente criticato numerose decisioni delle Brigate Rosse, soprattutto successive al suo arresto. Negli anni '90 è stato quindi scarcerato con quattro anni di anticipo, e da allora è tornato all'attività di sociologo nella cooperativa editoriale e sociale “Sensibili alle foglie”, da lui fondata, che si occupa di tematiche legate alla disabilità, immigrazione e diritti nelle carceri. Inoltre, la cooperativa opera interessanti studi nel campo delle nuove forme di controllo sociale nella società di massa. Appena ottenuta la semilibertà il 7 aprile 1993, l'allora direttore de Il Giorno, Paolo Liguori, gli offrì un posto da giornalista ma lui declinò l'offerta perché prematura.

 

Vincenzo Maria D’Ascanio

martedì 16 gennaio 2024

Jan Palach, morto per la libertà. Di Vincenzo Maria D’Ascanio.


 

(16 Gennaio1969) Al centro di Praga, in Piazza San Venceslao, lo studente cecoslovacco, Jan Palach, decide di darsi fuoco come estremo gesto di protesta contro l’occupazione della Cecoslovacchia (il suo paese) da parte delle truppe sovietiche che stroncano il "socialismo del volto umano", inaugurato con le riforme della cosidetta "Primavera di Praga", la rivoluzione democratica reclamata dal popolo.

Ben presto tuttavia la stagione delle riforme viene brutalmente interrotta: il 21 agosto 1968 le truppe del patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia. Viene annullata la libertà di stampa, limitati il diritto di riunione e di sciopero. Tutte le manifestazioni antisovietiche sono duramente represse. Fallisce anche lo sciopero del CASP (Comitato d'azione studenti praghesi) del 18 novembre che non ottiene l'appoggio della maggioranza della popolazione, scoraggiata e impaurita.

"Non voglio suicidarmi, mi sono dato fuoco come fanno i buddisti in Vietnam, per protestare contro quel che succede qui, contro la mancanza di libertà di parola, di stampa e di tutto il resto". Queste sono le parole che Jan Palach ripete al personale dell'ospedale in cui viene ricoverato.

Palach, 21 anni non ancora compiuti, muore due giorni dopo per le ustioni riportate, in seguito ad immani sofferenze. L’opinione pubblica è sgomenta, mentre il nuovo governo filosovietico tenta una campagna diffamatoria verso lo studente per sminuirne l’atto estremo. Prima di morire, nei rari momenti di lucidità, chiede che gli leggano i giornali, per sapere se il governo abbia accettato qualcuna delle sue richieste.

La camera ardente, allestita nella facoltà di filosofia, diviene meta incessante del pellegrinaggio non solo dei praghesi, ma di tutta la nazione. Il 25 gennaio, giorno dei funerali, una marea silenziosa partecipa commossa all'ultimo saluto al giovane con cui ha condiviso il sogno di libertà. 

Dopo il crollo della "Cortina di Ferro" e la caduta del Muro di Berlino, la figura di Jan Palach fu naturalmente rivalutata: nel 1990 il presidente Havel gli dedicò una lapide per commemorare il suo sacrificio in nome della libertà, posta in piazza San Venceslao, a Praga. Nel 1989 gli venne intitolata la piazza nel centro di Praga fino ad allora dedicata all'Armata Rossa. Oggi molte associazioni studentesche, anche di sinistra, lo ricordano come una persona morta in nome dei suoi ideali, e non sono pochi i circoli giovanili dedicati a Jan Palach.

Di Vincenzo Maria DAscanio.

Nuraghe Nastasi, Tertenia, Ogliastra (Nuoro). Di Natalia Guiso (Nuraviganne)


 

Con il mio socio negli ultimi sei/sette anni, appena potevamo, siamo andati in lungo ed in largo in giro per la Sardegna per esplorare, attraverso i resti dei siti, la storia dei nostri avi, quanta bellezza e quanto vissuto ci hanno lasciato. Ed ogni volta, ogni singola volta mi sorprendono e mi emozionano. Ciascun luogo riesce a regalarci sensazioni uniche.

 

Nella Marina di Tertenia, arroccato su una piccola collina, da cui riesce ad osservare una buona porzione della costa e dell'entroterra si può visitare il grandioso polilobato Nastasi. Ma ciò che si prova dinanzi a lui è pura magia, massiccio ed imponente con i suoi grossi massi, trasmette tutta la sua potenza.

 

Nato come monotorre e evolutosi in nuraghe polilobato durante lo sviluppo economico e sociale delle comunità, ci mostra in tutta la sua solidità la camera, le varie torri, due cortili, un pozzo e due ingressi. Ai piani superiori si accedeva tramite due scale.

 

Grazie alle foto del drone si possono capire oggi le planimetrie e la complessità di queste strutture, che a volte mi ricordano la caotica bellezza di un cespuglio fiorito. Il nuraghe, utilizzato anche nelle fasi successive alla sua realizzazione, ha regalato tantissimi oggetti in bronzo, frammenti in terra cotta e molto altro.

 

A poca distanza c'era uno splendido villaggio, compreso di edifici di cui uno di pianta rettangolare, oggi purtroppo molto di tutto questo è andato perso. Malauguratamente i villaggi sono tra i primi luoghi ad essere distrutti, ma sono anche quelli che restituiscono ambienti e reperti per riuscire a capire la società, gli usi e i costumi di questo lontano passato. Curiosità, a voi cosa ricordano le planimetrie dei nuraghi polilobati? E questo in particolare?

 

Natalia Guiso

 

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venerdì 12 gennaio 2024

Vasco odia il sud e la Sardegna? Di Vincenzo Maria D’Ascanio.


 

La leggenda metropolitana su Vasco Rossi che parla male del Sud, serpeggia nell’aria da circa vent’anni. «L’ho sentita», «Sì, io ho visto Vasco al Tg parlarne male», «Sì, come no, ha detto che il Sud è un cesso». Una leggenda così radicata in alcune coscienze che è diventata un fenomeno all’inverso della comunicazione nel nostro Belpaese. In molti dicono di aver visto, sentito, ma nessuno ha mai portato una vera prova e questo non per pigrizia, ma semplicemente perché non esiste nulla. Ma ora cerchiamo di fare un po’ di ordine sulla questione.

 

Dicerie e leggende metropolitane. Non si tratta tanto di sapere se Vasco abbia o meno parlato male del Sud, si tratta invece di comprendere quali siano le coordinate prestabilite per l’esplosione di una leggenda metropolitana. Nel caso specifico la leggenda nasce agli inizi degli anni ’90, quando Vasco, arrivato all’apoteosi della sua carriera, essendo stato il primo artista italiano a riempire “San Siro,” e a battere negli incassi mostri sacri come Madonna e Rolling Stones. Comincia intanto a dar fastidio a tantissimi “uomini di musica”. Ogni sua uscita è forte, conforme alla sua personalità.

 

Così succede che una leggenda prende forma in poco tempo, nel momento in cui Vasco è fermo discograficamente. «Vasco vota la lega Nord». Poi il Blasco nazionale – segue la leggenda – si reca a Roma dove dice che la capitale è una città di merda, poi va in Sardegna e non contento dice agli abitanti del posto che sono “caproni”. In Calabria succede lo stesso.

 

Qui, Vasco per molti è l’artefice di «io vado al Sud perché ogni tanto al cesso bisogna andarci». Un putiferio. Questa frase si radica nelle menti calabresi e meridionali in poco tempo. Si diffonde in tutte quelle coscienze che già non vedevano di buon occhio un personaggio scomodo come Vasco, etichettato come un drogato da evitare. La diceria è inarrestabile: tutti han sentito senza sentire nulla. Vasco convoca una conferenza stampa e sorprendendo tutti riafferma inizialmente una sua scelta politica. «È da vent’anni che voto i radicali. Ho anche la tessera del partito radicale. Non so davvero da dove sia uscita fuori questa storia: io che voto Lega, io che parlo male di Roma, del Sud, spesso visitato nel corso della mia gioventù». Vasco lancia un monito forte. «La mia verità sta nelle canzoni, se poi qualcuno vuole credere a questa storia, lo faccia pure, ma che non venga ai miei concerti ad applaudirmi».

 

I retroscena. Sta di fatto che nel 1993, anno della massima esposizione di questa leggenda metropolitana, Vasco fa un concerto a Catanzaro. Lo stadio è pieno in ogni ordine di posto. La folla lo acclama come non mai. Così Vasco va avanti per la sua strada, ma quella leggenda lo accompagna per tutti i suoi anni di carriera. Fino al 2004, quando Vasco organizza un concerto al Sud. La gente comincia a farsi una domanda. «Ma lo farà perché si sente in colpa?»

 

Ecco che allora tutti aspettano la dichiarazione fatale di Vasco. Nelle interviste i giornalisti cominciano a chiedere. Vasco con la sua ironia pungente spiazza ogni volta tutti, ma per molti non c’è niente da fare. I dubbi permangono. Quando Vasco arriva nel retro palco per il concerto di Catanzaro, chiarisce. «Sono molto felice di essere qui, al Sud è sempre più difficile fare dei concerti ultimamente, ma io ci sto da Dio». Una frase chiara, chiarissima. È una frase che non spazza via ogni dubbio, ma mette in moto un nuovo meccanismo. «Vasco ha detto che al Sud deve andarci qualche volta, perché si deve pur pisciare da qualche parte».

Una frase così semplice, strumentalizzata e modificata ad arte dai detrattori. La storia non finisce qui però. Infatti, Vasco ritorna più volte al Sud. Sempre con tantissimo successo, ma con l’alone di mistero della vecchia leggenda.

Nel 2007 c’è uno spartiacque decisivo: Vasco è a Cosenza per un concerto del suo nuovo Tour. In città serpeggiano voci incredibili. «Gli tireremo di tutto in faccia. È meglio che non faccia il concerto questa volta». La gente (parliamo sempre di una piccola parte, è giusto che questo fenomeno sia lben limitata) non vuol sentire ragioni. Anche se nessuno ha sentito, va avanti la battaglia di “sputtanamento.”

 

Vista la situazione, Vasco decide di scrivere una lettera alla “Provincia cosentina”, dove spiega tutto il suo rapporto dettagliato con il Sud, un rapporto d’amore fortificato negli anni anche attraverso la collaborazione del manager calabrese Dino Vitola. Una storia fatta di tante gioie e poche delusioni. Tra queste, quella di non esser stato chiamato più dalle città del Sud dopo la morte del suo amico Massimo Riva. Forse il meridione era terrorizzato da un personaggio che, comunque fossero andate le cose, era troppo vicino alla droga e dunque in grado di traviare così i giovani.

 

Nel giro di pochi anni il rapporto con il Sud, con Roma e la Sardegna è tornato su binari più conformi alla normalità. Vasco ha continuato a fare concerti, ad andare in vacanza al Sud, ad aprire i suoi tour in Sardegna. Intanto, se avete tempo, leggete i link sottostanti, dove la bufala che “Vasco odia il sud” è ben chiarita (ne ho scritto qualcuno, ma sono decine e decine, dove Vasco sottolinea che denuncerà chiunque affermerà questa diceria).

 

https://www.ilriformista.it/la-grande-fake-news-di-vasco-rossi-che-odia-sud-e-napoli-bisogna-pure-andare-al-cesso-301717/
 
 
https://www.bolognatoday.it/cronaca/vasco-rossi-sud-insulti-facebook-concerto-napoli.html
 
 
https://www.ilsecoloxix.it/cultura-e-spettacoli/2015/07/02/news/vasco-rossi-la-bufala-sul-sud-e-la-querela-l-autore-del-post-solo-un-equivoco-1.31680993


Vincenzo Maria D'Ascanio

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