In questi stessi momenti, quattro anni fa, mi trovavo a Barcellona davanti al seggio di Sant Antoni, assieme ai miei compagni di Liberu.Eravamo andati in delegazione per contribuire a difendere il referendum sull’indipendenza della Catalogna. Quella mattina vidi persone di ogni età e condizione sociale che si incolonnavano disciplinate per esprimere il diritto democratico di decidere in casa propria. Vidi giovani e anziani, persone in carrozzina che venivano accompagnate, felici. Vidi la gente che applaudiva una anziana signora mentre usciva dal seggio: mi dissero che da giovane aveva combattuto per la Catalogna nella guerra civile. E quel giorno era lì, di nuovo, a combattere per la Catalogna con una matita.
All’arrivo della polizia spagnola ci sedemmo tutti in terra,
stringendoci forte le braccia per fare un cordone che impedisse l’irruzione dei
poliziotti nel seggio. Iniziarono a provocare, a dare calci alle ragazze, e poi
iniziarono a sgomberare furiosamente. Alcuni vennero presi per i capelli, altri
per le orecchie, altri per la gola. La difficoltà di rompere il cordone li fece
andare su tutte le furie, iniziarono a colpire duro, iniziarono a distribuire pugni calci e manganellate.
Mi
si avventò sopra un agente che mi strinse il braccio e mi disse qualcosa di
incomprensibile con un sorriso sadico e le pupille grandi come una moneta da 5
centesimi. Venni sollevato e sbattuto con forza verso gli agenti, che mi
lanciarono con violenza verso la strada. Andai a sbattere su un palo, ma non mi
feci tanto male. Mentre risuonavano le urla e il tonfo sordo del manganello sui
corpi, mi rimase impressa una strisciata di sangue sul cofano di una macchina
bianca.
Entrarono. Rubarono le schede in cui era scritta la volontà del
popolo.
Salirono sui blindati e per cercare di impaurire la folla, disarmata ma decisa,
presero a sparare proiettili di gomma sull’asfalto, cercando di farli rimbalzare
in direzione della gente. Scapparono con la refurtiva e ci lasciarono smarriti
e impotenti. Quando venne resa nota la volontà popolare il presidente Puigdemont, tentennò, provò a instaurare trattative
con lo Stato, isetande late dae su mariane.
Con
tutto il popolo sovrano che aveva subito pestaggi sanguinosi per decidere il
futuro, perse ore e giorni preziosi, ritardò la
proclamazione, non chiamò l’insurrezione generale e avviò un periodo di
stagnazione che le forze popolari contrastarono a lungo ma non riuscirono a
invertire. Nei mesi e negli anni successivi la repressione mostrò il pugno di
ferro. Puigdemont non ebbe sorte meno dura di chi finì in galera, sbaglia chi
dice il contrario.
Portò il problema della Catalogna nel cuore dell’Europa, mise la bandiera sul tavolo dei potenti e disse: questo è un problema vostro. Puigdemont non è un compagno, non è Che Guevara, non è il messia: è un politico che col suo esilio, da presidente acclamato da un popolo che aveva esercitato il diritto alla democrazia, apre contraddizioni.
Divide
la destra e la sinistra, divide le destre, divide le sinistre, smaschera
platealmente, al solo suo passaggio, i difensori dell’autodeterminazione solo a
condizione che sia lontana dal giardino di casa, preferibilmente povera e
soprattutto perdente.
Svela a tutti l’inconsistenza del perbenismo che tiene legati a sputo questi Stati vecchi decrepiti, tenuti insieme da tre –one: pallone, televisione, repressione. Mette a litigare padri e figli, schieramenti politici, partiti, correnti, obbligando tutti a dimostrare da che parte si sta quando il diritto all’autodeterminazione dei popoli smette di essere teorico e diventa pratico, con un nome e un luogo, qui e ora. E soprattutto diventa scomodo per tutti, perché quando mette sul tavolo il diritto all’autodeterminazione apre la madre di tutte le contraddizioni: la concezione di democrazia.
Pier Franco Devias
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