Un
docente: Deledda? Non conosceva l’Italiano! Si tratta di un giudizio da
perfetto ignorante.
Nel senso che ignora la Deledda e la lingua che utilizza. Infatti per
comprendere bene la lingua usata dalla Deledda nei suoi scritti occorre partire
da questa premessa: la lingua sarda non è un
dialetto italiano – come purtroppo ancora molti affermano e pensano, in genere
per ignoranza – ma una vera è propria lingua.
Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e
l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue.
Era
una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale
meno le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso
tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati
esistenziali, nelle struttura di senso magari inespresse ma presenti nel corso
della narrazione. Voglio sostenere che la Deledda struttura il suo vissuto
personale, la fenomenologia delle sue sensazioni e del
profondo in lingua sarda ma lo riversa nella lingua italiana che risulta così
semplice lingua strumentale. In tal modo opera un transfert del suo
universo interiore nuorese, dell’inconscio, della fantasmatica.
Poteva non
operare tale transfert e scrivere in Sardo? Certamente. Se non lo ha fatto è
stato perché non vi era in quel momento storico (siamo a fine Ottocento-inizio
Novecento) la cultura, la sensibilità, l’abitudine da parte degli scrittori,
specie di romanzi, di utilizzare il sardo. Prima con i
Savoia e poi con lo Stato unitario e ancor più con il fascismo, la lingua sarda
viene infatti proibita negata criminalizzata. Con
l’operazione della “nazionalizzazione-italianizzazione” dell’intera storia
italiana. Non c’è quindi da meravigliarsi che, una volta negata e
proibita, gli scrittori – anche per avere una maggiore visibilità e diffusione
delle loro opere – scrivano in italiano: la Deledda come tanti altri.
Ma
– dicevo – Deledda rimane bilingue: pensa in sardo e traduce, spesso
meccanicamente in italiano, soprattutto “nel parlare dialogico” – lo
sostiene il linguista Massimo Pittau e io sono d’accordo – come in :”Venuto
sei? –che traduce il sardo: Bennidu ses?; o “Trovato fatto l’hai? – Accatadu
fattu l’as?; o ancora “A Luigi visto l’hai? –A Luisu bidu l’as?; o “Quando è
così, andiamo – Cando est gai, andamus.
Vi
sono poi innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda
inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo
a bandiare (fare il bandito), bardana ( ), tanca (terreno di campagna chiuso da
un recinto fatto in genere di sassi), socronza, usatissima in Elias Portolu
(consuocera), corbula (cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane), roba,
leppa (coltello a serramanico), cumbessias o muristenes (stanzette tipiche
delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene
della Madonna o di Santi), domos de janas (tombe rupestri e letteralmente “case
delle fate”) Paska Devaddis, Bantine Fera, Berte Sirca, Zio Franziscu, Pride
Fenu), toponimi (Funtana ‘e litumonte di Santu Janne,Marreri, Sa Serra),
esclamazioni (peuh).
Pensiamo ai
nomi o addirittura intere frasi in sardo come: frate meu (fratello mio), Santu
Franziscu bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo,
letteralmente il bello grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti
paret? (ti sembra?), corfu ‘e mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non
ch’essas prus (che tu non ne esca più :è un’imprecazione). Qualche volta Deledda ricorre a frasi italiane storpiate in
sardo o frasi sarde storpiate in italiano:Come ho ammaccato questo
cristiano così ammaccherò te (…) o Avete compriso?”
Occorre
però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda, non solo lessicali ma
anche sintattici, non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente
la lingua italiana.
Scrive a questo proposito la critica sarda Paola Pittalis: “L’uso dei
“sardismi” linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità
–è il caso di Elias Portolu- è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una
chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa
parte del suo essere “bilingue”. Ciò non significa che in questa scelta non sia
stata condizionata da fenomeni letterari e culturali
esterni, -come il verismo- che prevedevano la raffigurazione oggettiva della
realtà da parte dello scrittore che doveva riportare fedelmente il linguaggio
popolare e “dialettale” dei personaggi.
A questo
proposito occorre secondo molti critici liquidare risolutamente il luogo comune
della “cattiva lingua” e della “mancanza di stile” appoggiato alla valutazione
di intellettuali di prestigio da Dessì (le “sgrammaticature” di Deledda) a Cecchi
(la sua lingua “spampanata”). Si tratta invece –secondo Paola Pitzalis- “di
forme nate dall’incontro fra dialetto e italiano nel momento di formazione
delle varietà designate oggi come <italiani regionali>.
L’uso
di vocaboli dialettali, sardismi sintattici e atti linguistici frequenti in
Sardegna è intenzionale, tanto è vero che scompaiono quando l’interesse di
Deledda si sposta dal romanzo <verista> e <regionale> al romanzo
<psicologico> e <simbolico> (dopo il 1920). La
sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile;
deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di
costruzione del racconto orale (è questo un percorso suggestivo sul quale da
tempo lavora con esiti personali Sole). Ed è il contributo modernizzante di
Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello
della frase manzoniana…” [Paola Pittalis, Il ritorno alla Deledda,
<Ichnusa>, rivista della Sardegna, anno 5, n.1 Luglio-Dicembre 1986,
pag.81].
Francesco Casula
Storico e saggista della cultura sarda.
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