Il 25
novembre è la data della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Una violenza che non è da intendersi solo come esercitata nei confronti
di esseri umani di sesso femminile, ma che è caratterizzata dal contesto e dal
movente che la scatena.
Ogni
anno nel mondo migliaia di donne vengono uccise, decine di migliaia ferite,
spesso gravemente, da uomini maltrattanti che hanno un rapporto malato con la
propria compagna o ex. Ma oltre ai casi di violenza fisica ci sono
anche quelli di violenza psicologica, un
fenomeno meno appariscente ma che determina condizioni di vita infernali per
milioni di donne e in cui gran parte della società è immersa silenziosamente. In questi primi 11 mesi in Italia sono state uccise 103 donne, un numero
spaventoso in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
A
scatenare questa violenza è la concezione di possesso della donna da parte dell’uomo maltrattante, che considera la propria
compagna come un oggetto che deve sottomettersi e deve vivere accettando senza
alcun accenno di ribellione la condizione che le viene imposta. Condizione che
prosegue anche quando si interrompe il rapporto, con persecuzioni nei confronti
della propria ex.
Queste
continue angherie e violenze, come sappiamo, spesso arrivano fino al
femminicidio. Un omicidio di donne che si chiama, appunto,
femminicidio per indicarne la motivazione possessiva e persecutoria che lo ha
generato.
Per
sradicare questo insopportabile fenomeno non bastano le misure repressive,
peraltro scarse, inadatte e troppo spesso accondiscendenti nei confronti del
maltrattante, con allarmi che vengono presi in considerazione troppo tardi. E’ necessario una grande rivoluzione culturale di tutta la società, che
deve partire dal presupposto che nessun essere umano può essere proprietà di
nessuno e deve svilupparsi su una linea di
rispetto paritario su tutti i fronti, a cominciare da quello lavorativo, luogo
in cui con più facilità si può costruire la propria autodeterminazione ma in
cui molto spesso la violenza maschilista si manifesta in maniera più subdola e
spietata.
A tutto
ciò corrisponde di frequente un atteggiamento di colpevolizzazione
della donna, che viene in qualche modo – come
accaduto recentemente anche sotto i riflettori televisivi – ritenuta
addirittura corresponsabile degli atti di violenza subiti, a causa dei suoi
comportamenti evidentemente ritenuti poco remissivi.
Rifiutiamo
categoricamente ripartizioni di colpe di fronte alla violenza subita, siamo
vittime e non corresponsabili. Rivendichiamo
il nostro diritto di lavorare, di interrompere una relazione, di sentirci
libere di viaggiare, di uscire di casa, di vestirci come ci piace, senza avere
paura.
Non è la
nostra libertà a dover essere sottoposta a censura ma quella di chi esercita la
violenza. Se non si parte da questo presupposto nessuna violenza potrà mai
essere fermata! Lottiamo tutti insieme, uomini e donne, per un grande
cambiamento sociale che releghi la
violenza
di genere a vergognosa pagina di un barbaro passato.
Liberu – Lìberas
Rispetadas Uguales
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